Giorno 12: d’istanti e di sorrisi

20 marzo 2020

Dobbiamo stare distanti.
Lontani.
E non è la lontananza del disinteresse. Non fatichiamo a stare lontano da chi non conosciamo o da chi non sopportiamo. Fatichiamo, invece, a mantenere la distanza da chi vorremmo vedere ogni giorno, da chi è solo e vorrebbe che fossimo lì.
Questo virus ci ha sezionato, ha reciso i nostri legami più intimi, più profondi. E se tra i tuoi cari c’è un malato, non puoi sederti su una sedia di fronte a lui e dirgli che andrà tutto bene. Non puoi preparargli un tè, non puoi accarezzarlo un po’.
Ogni piccolo nucleo famigliare è diventato un universo chiuso, o sei dentro o sei fuori. Bisogna sperare che quel dentro sia sufficiente, perché se non lo fosse, c’è l’ospedale, che è ancora più distante.
Lì manca tutto, oltre gli affetti anche gli oggetti, i luoghi, le nostre cose.
L’ospedale è lontanissimo.
Tutto è lontano.
Fino a qualche giorno fa Madrid era a due ore di volo, ora è a millesettecento chilometri e in mezzo ci sono le Alpi, i Pirenei e pare ci sia pure l’oceano. Quanto ci vorrebbe a piedi o a cavallo? Settimane? Mesi? E quante frontiere si devono oltrepassare?
Sì, ma quanti siete?
Qui nel nostro micro universo siamo 4, stiamo bene, ci coccoliamo con pranzi e cene tutti insieme. Apparecchiamo la tavola come nei giorni di festa, sistemiamo casa, gli orari sono quasi regolari. 
Poi ci sono le telefonate che scandiscono il passare del tempo. Ha la febbre? Il respiro come va? Ha chiamato il medico? È tranquillo? Poi ci sono le telefonate ai numeri dedicati. Lì ogni volta che chiami la prima cosa che ti chiedono è l’età, poi la zona di residenza.
Anche se chiami per un altro.
Poi ti chiedono l’età dell’altro, la residenza, se è in isolamento, se è stato contattato dall’igiene pubblica. Poi rispondono alle domande sul decorso, sui farmaci, sulle casistiche.
Sono di una gentilezza disarmante.
Poi ci sono quelli che stanno bene e devono occuparsi dei malati.
Sono stanchi, sono preoccupati, sono stremati. E sono soli.
Con i miei abitiamo vicini, un paio di chilometri. La struttura del marito è poco più lontano.
Ora sembra che tra noi e loro ci siano le Alpi i Pirenei e pare ci sia pure l’oceano.
Sembrano passati mesi da quando si poteva uscire, ci si poteva incontrare, è tutto rallentato, ovattato, silenzioso.
Distante. Distanti.
D’istanti e di sorrisi.
Già, perché poi c’è il cagno felice che quando hai finito di pulire tutto per bene, torna da una passeggiata (entro i 500 metri eh) e siccome è un cagno felice lui ha deciso di rotolarsi nel letame, che è un gioco bellissimo. E lo infili nella vasca, che non è un gioco bellissimo, però va bene, perché di solito dopo arriva un biscotto. E il biscotto è bellissimo.
Poi ci sono i compleanni al tempo del virus…
C’è una torta prenotata per te nel forno sotto casa… Però dovresti andare a prenderla perché non fanno consegne a domicilio… Ehm, dovresti anche pagarla perché non accettano altri pagamenti… Però è buona! 
E poi c’è il nuovo scopettino del cesso…

Noi stiamo meglio e sorridiamo, ecco. Voi?

Giorno 6: La noia dell’isolamento? Tsk tsk…

14 marzo 2020

Il mio personale delirio da Coronavirus è iniziato il 18 febbraio, quando decido di cappottarmi da un muretto e di smontarmi il ginocchio destro, quello buono.
Quindi, oltre alla Pandemia, alla rivolta nelle carceri, ai profughi siriani, al terremoto, alle cavallette, al lambrusco dai rubinetti e ai proclami degli imbecilli, nel mio piccolo orticello si sono susseguiti i seguenti avvenimenti (tutti rigorosamente stampellati e doloranti):

– Un figlio con 39,6 di febbre (guarito)
– Marito con polmonite batterica e isolamento forzato della struttura (tampone negativo)
– Padre con polmonite (genitori in quarantena)
– Suocera furente che perde definitivamente la ragione (e anche il torto)
– Sciatiche random
– Un secondo figlio bloccato in Spagna (ora rientrato)
– Situazione lavorativa… Il nulla
– Telefono rovente con aggiornamenti in tempo reale dalle varie unità di crisi domestiche.
In tutto ciò, però, c’è chi si bea di avere a disposizione tutto il giorno 8 mani massaggianti: il cagno felice.
E no, non lo presto per passeggiate in deroga all’isolamento…
Voi a casa tutto bene?

Giorno 3: dallo spritz alla rianimazione

11 marzo 2020

Ci viene chiesto di stare a casa, ma noi siamo più furbi, siamo sani e atletici, nulla ci spaventa. Secondo un’amica quelli che hanno continuato con i loro aperitivi serali in caso di ricovero andrebbero curati con spritz e patatine.
Sarebbe giusto, ma non sarà così, il medico cura il corpo qualunque sia la testa lì avvitata.
Siamo giovani e atletici e con ogni probabilità occuperemo il posto di qualche immunodepresso (magari giovane come noi), che nonostante le sue attenzioni si è imbattuto in un imbecille più furbo di tutti. Lui crepa e a noi in fondo non ci tocca, nemmeno lo conosciamo, era malato da tempo, poveretto.
A noi verrà riservato un posto letto in rianimazione e guariremo (siamo giovani e atletici).

Ecco, un giro in rianimazione andrebbe fatto, non è proprio un soggiorno da resort, nonostante il costo giornaliero di ogni paziente sia più o meno quello di una suite in un 5 stelle lusso.
Io ci ho “vissuto” per circa 4 mesi da parente e se la morte non ci spaventa (perché troppo lontana) forse qualcosa di quello che ho visto sì.
Quando un paziente entra in rianimazione se non è in grado di respirare autonomamente viene intubato, gli infilano un tubo in gola (e può capitare che le corde vocali si lesionino) e lo collegano ad un respiratore, la sua cassa toracica assume un movimento meccanico, non è respiro è ventilazione forzata.

Io quel movimento ritmico non lo dimenticherà mai…

Il paziente viene sedato (coma farmacologico) e da quel momento non ha più il controllo del suo corpo.
A poco a poco i tubi che entrano in quel corpo si moltiplicano. Un tubo entra nei genitali per urinare; s’infila un ago enorme nel collo (cucito alla pelle) che consente l’accesso arterioso per i farmaci che vengono inoculati da una macchina; potrebbero essere necessari dei drenaggi per cui sarebbe necessario bucare la pelle e infilare dei tubi che grondano liquidi schiumosi; un sondino entra dal naso per raggiungere lo stomaco e alimentare il paziente che viene poi collegato ad una miriade di cavi che riportano e monitorano tutte le funzioni vitali a macchine il cui compito è quello di suonare non appena qualcosa non va.
Normalmente il paziente è nudo, coperto con un piccolo lenzuolo sulle parti intime, potrebbe avere il pannolone o essere semplicemente lavato ogni volta che defeca.

La rianimazione poi, è un luogo dove da un minuto all’altra si passa da un silenzio irreale cadenzato dai suoni delle macchine ad attimi di pura follia, in cui tutti gli allarmi suonano contemporaneamente e tutto il personale si precipita sul paziente di turno nel tentativo di strapparlo alla morte. Non è facile.
Alle volte i suoni si placano, altre volte si fa posto ad una bara di acciaio che porterà via quel corpo morto.

Per i più fortunati la degenza si protrae, ma visto che la priorità lì è mantenere in vita ci sono tutta una serie di conseguenze “minori” che quei corpi subiranno.
Il tubo in gola per respirare verrà sostituito da un’altro che entra direttamente dalla trachea, il sondino per l’alimentazione verrà spostato direttamente sullo stomaco, forando quel che c’è da forare. Il tono muscolare già dopo pochi giorni si perderà completamente (eravamo atletici ora siamo inermi), serviranno mesi di riabilitazione per ricominciare a svolgere le normali attività quotidiane. Per ragioni igieniche potrebbero anche decidere di rasare i capelli. La posizione immobile e forzata causerà piaghe da decubito che se guariranno, dopo mesi di trattamento, lasceranno cicatrici enormi prive di capelli e peluria.

Tutto questo accadrà ai più fortunati, quelli che prima o poi usciranno dalla terapia intensiva, ma sopratutto capiterà a quelli che in rianimazione sono stati ricoverati. Già, perché in un momento di emergenza sanitaria non tutti godranno di questo diritto.
Lo so per certo, perché noi nel caso di aggravamento siamo fuori.

Quindi emerito imbecille che continui a sprizzare gioia dalle cannucce del bar, vedi di non rompere i coglioni alla comunità e chiuditi in casa, che quel cazzo di divano là in rianimazione se lo sognano tutti i giorni come il luogo più bello dove tornare forse un giorno. 

Giorno 1: siamo in quarantena

9 marzo 2020

È accaduto.
Siamo zona rossa fino al 3 aprile.
Noi siamo abituati a questo colore, ci appartiene da sempre, l’Emilia rossa, la rossa di Maranello, il lambrusco (che in questi giorni è persino sgorgato dai rubinetti di Ca’ di Sola); poi abbiamo conosciuto le prime zone rosse con i nastri di plastica a righe diagonali, durante il terremoto della Bassa. Ora siamo confinati per arginare il rischio infettivo di questo virus sconosciuto.
Di fatto in quarantena.
Sentiamo da giorni questa parola desueta e inquietante.
Periodo di isolamento a cui sono sottoposti umani, animali o cose, specie in arrivo per vie marittime o aeree, per scongiurare epidemie.
Pensiamo alle grandi pestilenze del passato, quella del 1630 narrata ne I promessi sposi, che sembra lontana, ma che ancora fa parte della nostra vita quotidiana. Qui a Maranello, come in altri luoghi, esiste tutt’ora una località chiamata Lazzaretto, dove proprio durante la pestilenza narrata da Manzoni vennero isolati gli appestati del paese.
Fu la Repubblica di Venezia nel Quattrocento ad attuare per prima politiche sanitarie volte a evitare la diffusione dei contagi con la creazione dei lazzaretti. Pare che il nome derivi proprio dall’isola veneziana Santa Maria di Nazareth in cui fu collocato il primo luogo deputato all’accoglienza di persone, animali e merci sospette. La enne iniziale venne poi mutata in elle per sovrapposizione con Lazzaro il lebbroso resuscitato da Cristo.
Quaranta giorni di isolamento.
Forse i nostri non saranno davvero 40 giorni, forse di più o di meno.
Il numero quaranta, che per i nostri avi era un ragionevole lasso di tempo utile per scongiurare il contagio, ha però un grande significato simbolico.
Nell’Antico e nel Nuovo testamento questo numero ricorre diverse volte e ogni volta designa un periodo di attesa: sono 40 gli anni trascorsi dal popolo di Israele nel deserto; 40 giorni durò il diluvio universale; 40 giorni Mosè rimase sul monte; i vangeli parlano di 40 giorni e 40 notti di digiuno di Gesù nel deserto e per 40 giorni il Signore si manifestò ai discepoli dopo la risurrezione prima di salire al cielo. La Chiesa poi ci propone ancora oggi i 40 giorni della Quaresima che curiosamente corrispondono esattamente con la nostra quarantena. Nel 1600 vennero coniate delle monete d’argento del valore di 40 soldi dette Quarantane, 40 sono le carte di un mazzo da gioco italiano e la Smorfia, tra gli altri significati, attribuisce al 40 la noia.
Ecco, ora, la noia è un tema ricorrente nelle nostre giornate ai domiciliari, occorre mantenere la calma, rispettare quanto previsto dai vari decreti e utilizzare questa enorme quantità di tempo nel modo migliore possibile. Vediamola come un’opportunità per stare in famiglia, parlare, leggere libri, guardare film e ascoltare musica.

Io comincio proponendo di ascoltare 40 una canzone che è contenuta, nella sua versione live, nell’album Under a Blood Red Sky degli U2. Questo brano, utilizzato in passato per concludere i concerti, recita, forse non a caso, il salmo 40 della Bibbia…